I fabbri di Fabriano
Nel tardo Medioevo le operazioni di fucinatura erano diffuse in tutte le realtà comunali. Esse apparivano naturalmente collegate alla crescita delle funzioni urbane. Rappresentavano, cioè, uno degli elementi caratterizzanti lo sviluppo della città e delle autonomie comunali. L’uso del ferro battuto tra il XII ed il XIII nelle chiese spagnole, francesi, inglesi, diffusosi in Italia nel XIV secolo, accentuò, inoltre, il carattere artistico dell’attività del fabbro. D’altro canto, questo tipo di manifattura era anche correlata all’agricoltura grazie alla produzione delle parti in ferro dell’aratro. E’ questo il motivo per cui l’attività di lavorazione del ferro era presente in tutte le città marchigiane. Tale dato fu, peraltro, favorito dal ruolo che queste ultime assunsero all’interno del sistema geomorfologico che caratterizza la regione. Nella quale, costituita, come scrive Ercole Sori, dalle “valli ‘a pettine’ scavate dai fiumi marchigiani che dall’Appenino scorrono verso il Mar Adriatico, esiste una costante insediativa molto evidente. Sono le città ‘cerniera’, sorte, cresciute, decadute in base al mutevole rapporto che si veniva a determinare tra due grandi mondi antropici: le montagne, la pianura, che si spinge oltre fino a diventare costa marittima”. Le città “cerniera” furono caratterizzate da un processo di diffusione dell’attività manifatturiera nel corso di buona parte del Medioevo, con una particolare accentuazione nei secoli XIII, XIV e XV. Fabriano è appunto una di queste città “cerniera”. Fin dal X-XI secolo, a cui si fanno risalire le prime tracce dell’autonomia comunale, le attività di lavorazione della carta, delle fibre tessili e dei metalli, assunsero un’importanza rilevante.
Per ciò che concerneva le attività di lavorazione del ferro, Fabriano occupò un posto particolare. Non a caso G.Cosentino nel suo volume del 1902 “La famiglia Fornari nell’industria e nell’arte fabrianese”, scrive: “nell’anno 713 di Roma un Prefetto De’ Fabri si stabilì, a dir de’ cronisti, nella verde conca che si apre a piedi dell’Appennino, bagnata da un affluente dell’Esino, che prese il nome di Giano, il dio bifronte che i Fabri veneravano come loro speciale patrono, e che diede il nome alla terra se si ritiene l’etimologia Fabri Iani, anziché quella di Faber Amni che altri prescelse”. Non a caso lo stemma comunale (un fabbro intento nel suo lavoro) è accompagnato dal seguente motto, riportato nel cartiglio: “Faber in amne cudit, olim cartam undique fudit”.Se altri studi hanno messo in discussione tali etimologie, sostenendo che il nome della città derivi dalla semplice forma aggettivale di Faberius, che indicava il possessore di un fundus o rus nel luogo dove poi sorsero i primi castelli medioevali di Fabriano, resta tuttavia il fatto che nell’immaginario collettivo e nella tradizione colta l’attività di lavorazione del ferro si collegò direttamente alla nascita della città. Come che sia, le botteghe dei fabbri si collocarono in gran parte nell’attuale Piazza Garibaldi, nell’area oggi occupata dal Mercato Coperto e dal Portico dei Vasari, come è attestato dagli Statuti della città che cominciarono a essere formalizzati nella seconda metà del XIII secolo. D’altra parte l’agglomerato attuale della città si formò tra l’XI e il XII secolo grazie all’unione dei due castelli, Castrum Vetus (Castelvecchio) e Castrum Novum (oggi Poio), entrambi ubicati sulla riva destra dell’allora fiume Castellano, che poi prese il nome di Giano. Sembra che l’avvallamento tra i due castelli fosse anticamente occupato da un torrente poi deviato per dar luogo alla strada, l’attuale Corso della Repubblica. E le fucine dei fabbri si localizzavano lungo il corso del fiume e sul ponte che univa i due castelli. Insomma, le attività di lavorazione del ferro si collocavano a giusto titolo accanto alle altre Arti, prima tra tutte quella della lana, a cui si aggiungevano quella dei corami e dei conciapelli e quella dei cartai.
Nel documento del 30 settembre 1278, con cui i Priori delle Arti nominarono Orso Orsini Podestà del Comune di Fabriano per il 1279, le Arti menzionate sono dodici e tra esse c’è anche quella dei fabbri. D’altro canto risulta che alla fine del Duecento fossero ben 38 le focine site sotto un porticato lungo il lato nord dell’attuale Piazza Garibaldi. Undici di esse furono acquistate nel 1297 dal Comune. Da esse uscivano manufatti molto richiesti tra cui le molle da fuoco o tenaglie a massello e i ferri battuti diffusi nel XIV secolo, come risulta da un atto del 1370 che parla di una fornitura di 15.000 libbre pagata 24 fiorini d’oro per ogni 1.000 libbre e destinata al porto di Fano.
Fu nel XIV secolo che le Arti ebbero il loro momento magico consentendo a Fabriano di divenire un Comune potente e ricco. Ciò nonostante incombesse su di loro la famiglia dei Chiavelli, antichi feudatari del contado fabrianese e protagonisti della vita cittadina sin dall’XI secolo. Essi rappresentavano la nobiltà ghibellina che si contrapponeva alle Arti, alla borghesia, di parte guelfa. I Chiavelli compresero che per indebolire il potere delle Arti dovevano inserirsi nel mondo imprenditoriale. Ecco perché, come scrive Giancarlo Castagnari, “dopo decenni di aspre contese con i gruppi di potere prevalgono su tutti non solo per il loro riconosciuto valore militare, ma anche per la loro ricchezza e per l’incontrastato controllo su tutti i settori economici con cui consolidano definitivamente nel 1378 la loro signoria”. Fu quello l’anno in cui il Comune delle Arti lasciò il posto al regime chiavellesco. Le Arti vennero ridotte a semplici organizzazioni tecnico-regolamentari prive di autonomia e peso politico. L’eccidio del 26 maggio 1435, in cui i congiurati massacrarono tutti i maschi della famiglia Chiavelli, fu perpetrato allo scopo di restaurare il governo delle Arti ed ottenere la protezione di Francesco Sforza, Gonfaloniere di S.Chiesa e Vicario Generale della Marca per il Pontefice Eugenio IV.
Nel 1435 i mestieri regolati dalle 16 corporazioni risultavano essere 17. Nel 1436 un nuovo Statuto restituì alle Arti il governo della città e lo Sforza approvò gli Statuti particolari di ogni singola Arte, tra cui quella dei fabbri. Nel 1438 le corporazioni regolarmente costituite salirono a 19 raggruppando 22 mestieri, nel 1445 calarono a 14, divennero 15 nel 1467, furono 20 con 22 mestieri nel 1468, scesero a 16 nel 1529, numero che restò stabile nel 1565, come risulta dalle Riformanze. L’Arte dei fabbri venne costantemente citata anche se quelle che risultavano più prospere, oltre all’Arte dei mercanti e all’Arte dei merciai, erano quelle della lana, della carta e dei calzolai, che rappresentavano i settori che, nell’ultimo scorcio del Medioevo e all’inizio dell’Età Moderna, costituivano l’asse portante della manifattura fabrianese.
In altri termini, mentre l’attività di lavorazione del ferro si sarebbe configurata sempre più come una sorta di artigianato artistico con scarse rispondenze con la stessa agricoltura, dove i mezzadri avrebbero iniziato a svolgere autonomamente alcune attività di lavorazione del ferro, le altre manifatture avrebbero ampliato i loro mercati e distribuito su aree sempre più vaste i loro prodotti. Ciò per altro spiega perché nel corso dei secoli di decadenza delle manifatture cittadine, dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento – periodo in cui l’economia dei territori marchigiani si ruralizzò e la popolazione si dislocò nelle campagne, mentre il centro urbano vide diminuire i suoi abitanti – il numero delle botteghe dei fabbri ferrai rimase – secondo quanto riportato dai pochi documenti rinvenuti – sostanzialmente immutato. Non a caso la carta secentesca di J.Blaeu indica la presenza nell’attuale Piazza Garibaldi, dove da sempre veniva lavorato il ferro, di “Botteghe de Fabri tutte unite n° 38”, lo stesso numero che veniva indicato alla fine del XIII secolo. La decadenza investì in misura minore queste attività in rapporto al complesso delle manifatture cittadine. Ciò perché la loro diminuzione di ruolo era avvenuta già in precedenza. Le tecniche non avevano conosciuto momenti di rinnovamento: la forgia aveva continuato a veder alimentare il suo fuoco da mantici a mano, mentre gli attrezzi di lavoro erano ancora limitati all’incudine, al martello, a punteruoli, lime, tenaglie, etc… Emblematico è, del resto, il fatto che nell’Ottocento, ossia nel secolo in cui le attività manifatturiere fabrianesi avevano brillantemente superato la fase di declino ed erano tornate a vivacizzare l’economia cittadina e del comprensorio, il luogo dove tradizionalmente si erano svolte le attività di lavorazione del ferro venne utilizzato per la produzione delle terrecotte e come sede del mattatoio comunale. All’epoca resistevano in città pochi fabbri – perennemente in bilico tra l’artigianato artistico, i lavori di ferro battuto e l’assistenza ai contadini per quel che riguardava la manutenzione e la riparazione degli attrezzi agricoli – figure professionali destinate lentamente, ma inesorabilmente, all’estinzione.